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“Specchio a Mezzogiorno. Le origini del malessere” di Eduardo Ferrone (1983)

Eduardo Ferrone (Torre Annunziata, 7 settembre 1923 – 31 ottobre 1990)

Marigliano (Na): Scuola Tipo-litografica “Istituto Anselmi, 1983, pp. 256 con illustrazioni B/N, 15x21cm.

Prefazione dell’Autore

«Sarà facile per il lettore scoprire tra le pagine del libro un nesso tra un cittadino e la sua città. Un proletario – uno dei tanti – spinto sul sentiero della ricerca da un miscuglio di stati d’animo: amore e odio, esaltazione e sconforto, allacciati da un unico filo di attaccamento al suolo natio e alle terre del sud. Sentimenti che si alternano e si scontrano a seconda di contrapposti avvenimenti e relativo significato. Una commissione tra fede, malinconia, speranza di rinascita, per una città che lo ha visto nascere e nella quale si è snodato un lungo tratto della sua vita. Quasi un itinerario parallelo tra due storie: umana e ambientale. Storia di alti e bassi, di orgoglio e di sconforto, di passi in avanti e di salti indietro. Da una parta una città dal passato illustre – con solide premesse per un’esposizione socio-culturale in virtù del suo retaggio di lotte democratiche -. Una città perduta (più per la protervia e la grettezza degli uomini, che per la fatalità degli eventi); relegata ai margini del vivere civile, senza prospettive: la classica città nella quale si può nascere e morire, ma in cui diventa difficile, quasi impossibile vivere. Dall’altra un cittadino – uno fra i tanti – nato proletario (in linea con la peculiarità locale), assorbito nell’anonimato di un mondo di lavoro alienante, sistematicamente fagocitato in una società che tra i valori umani privilegia il potere, il predominio dei potenti sui deboli, dei ricchi sui poveri, delle consorterie sui valori singoli. Ingredienti tritati e confusi in quel pastone di intrallazzo e di opportunismo che ha fin qui caratterizzato un lungo scorcio della storia patria, specie quella meridionale. Una città che non riesce a ritrovare la sua identità, una configurazione ed un modello a misura d’uomo; che cova nel seno (e la Villa Poppea e i ruderi oplontini ne sono testimonianza) radici di civiltà millenaria: una impronta di romanico splendore, una traccia di cultura borbonica-angioina; una città che appare e scompare, come una meteora, nei suoi tentativi di trasformazione da zona residenziale (Silva Mala) e di balneazione (remoti impianti termali, scoglio di Rovigliano) della Pompei precristiana e della Napoli capitale delle due Sicilie, in un punto di riferimento di un processo industriale meridionalistico. Concepito e mai portato alla luce. Un cittadino che muove passi nel periodo contorto e drammatico della storia del suo paese. Verso la fine del 1923 esce dal grembo materno. Nasce con le “stimmate” proletarie. E la sua nascita coincide con un altro evento. Diverse parti, le puerpere, le “mamme” e i neonati. E mentre dalle viscere materne (anch’essa popolana e proletaria) vede la luce un bimbo – uno dei tanti – dal ventre della storia un’altra levatrice (la rivoluzione) estrae un mostriciattolo: il fascismo. Quello locale presenta le credenziali: assassinio di Bertone e persecuzione e carcere per Gino Alfani. La società degli sfruttati e degli sfruttatori regala al giovane un padre padrone. Ma è la prima, più che il secondo, a muovere le leve di una cinica volontà di mantenerlo nell’ignoranza. Viene energicamente strappato dall’abbeveraggio del sapere (la scuola) quando maggiormente ne avverte la sete (alle soglie della giovinezza). Introdotto nel mondo del lavoro, ci si confonde, ci si smarrisce, dopo vani tentativi di conciliare le due esigenze (scuola e lavoro). Il dilemma è subito sciolto. Viene sollevato di peso da una strada per essere collocato nell’altra. Inutile dire che la leva sollevatrice e il genitore. Ma chi aziona i meccanismi, chi alza e guida quell’invisibile leva è la società. Ha il torto e la debolezza di rassegnarsi alla rinuncia dell’innata passione per lo studio. Per la nuova realtà non avverte stimoli, ci si adatta pedissequamente, anzi, per reazione – che ai più potrebbe apparire irrazionale – sceglie la mediocrità. Anche per coerenza coi suoi principi: repulsa per la ruffianeria e il “palafrenismo”. Un ragazzo divenuto uomo e avviato al crepuscolo senza alcuna possibilità di estrinsecare la propria personalità . Una città che dall’alba radiosa della sua nascita si trascina verso le tenebre dell’incertezza, il tramonto senza speranza e senza domani; una città declassata, sempre in salita di un culmine che si disperde nell’orizzonte. In questo libro si parla di una città, dei suoi simboli, del suo tracciato storico. Bertone e Alfani ne sono l’essenza spirituale e ideale, l’immagine e la storia. Storia di lotte e di sacrifici con sullo sfondo nuove frontiere, di progresso e di civiltà. In un capitolo, “21 gennaio 1946 – un boato poi le tenebre” è fissata una tappa, un punto per sviluppare un discorso critico. Il titolo si riallaccia – metaforicamente – ad un terrificante episodio che è rimasto impresso nello sguardo e nella mente delle generazioni superstiti. E non è una imprecazione, una ribellione, contro fatalistici eventi. E’ solo l’occasione per far luce su una delle tante città delle province meridionali. Una città con notevole retaggio socio-culturale attanagliata da una profonda crisi economica e politica. Un flash, uno specchio, che solo apparentemente è proiettato nel recinto municipalistico. In realtà esso riflette, magari in proporzione, la complessa realtà del Mezzogiorno. Pur nella gamma delle variegate e contraddittorie situazioni ambientali vi è un riscontro di comunanza e di similitudine di fenomeni aberranti che confluiscono e sboccano in una generale situazione di  insofferenza e di malessere. Torre Annunziata, quindi, è solo il punto di riferimento, il modello e la campionatura, di una realtà meridionale generalizzante. La scelta delle località, perciò, non è dettata da motivi sentimentali, da conoscenze ed esperienze dirette. Torre racchiude e simboleggia – in termini drammaticamente più accentuati – la crisi del Meridione ghettizzato ed emarginato dallo sviluppo generale del paese. Tutti i fenomeni tipici dell’involuzione socio-economica-culturale del sud trovano, purtroppo, in questa città lo spessore di maggiore ampiezza, la punta dell’iceberg, della crisi in atto. Essi sono avvertiti in modo traumatizzante. L’analisi delle cause dell’arresto e dell’arretramento di una città – disarcionata dalle posizioni di avanguardia e di prestigio di un tempo, ridotta a livello di “paese sedotto e abbandonato” – non è circoscritta nei limiti angusti del suo territorio. Così come le responsabilità di cause e concause non sono personalizzate nella sola classe dirigente alternatasi per oltre mezzo secolo a Palazzo Criscuolo. Anche se non si intende indulgere su errori e manchevolezze che pure vengono sottolineati in alcuni capitolo. La critica non si riduce ad una pura e semplice denunzia del potere, delle istituzioni. Essa si incentra su chi strumentalizza, canalizza, il potere stesso. Su chi allo scoperto, ma sovente nell’ombra ne aziona le leve. Il discorso sul contesto della società, le sue strutture, i suoi strumenti operativi, va calato in profondità, alle radici. La giusta direzione della critica va rivolta ai centri di potere, alle forze determinanti, mafiose, che egemonizzano la “cultura del potere” per comprimere quella reale in omaggio ad una spietata soggettività materializzata nel profitto e nel privilegio. Al sistema che si illude di nascondere con gli orpelli, con una facciata ormai fatiscente, una realtà permanente impostata nella moda del modernismo e del conservatorismo: figli legittimi del capitalismo e del suo sottoprodotto, l’immobilismo sociale e culturale delle masse popolari. Nell’alternarsi e confondersi della religiosità con la malvivenza, del contrabbando con lo sport, del caos del traffico con le poteste e le lotte per l’occupazione, dei moti studenteschi con la droga, delle carenze di abitazioni con la speculazione edilizia, si ritrovano puntualmente tutte le contraddizioni, la paralisi, di un sistema politico incapace di fornire risposte adeguate alle domande che emergono dal basso degli emarginati e dei disadattati. Sovente la critica superficiale è di più rivolta a presentare la città sotto cattiva luce, che ad approfondire l’indagine e l’analisi su una realtà assurda e intollerabile. Torre Annunziata non è – eufemisticamente – l’oasi nel deserto, l’eccezione alla regola, della realtà meridionale. Si guardi il capoluogo, si vada a scrutare nei suoi vicoli, nei suoi bassi, nei baraccamenti. Ci si accorgerà dell’uniformità della metropoli con la provincia. Tra centro e periferia scorre un inverosimile filo conduttore. Simili e concatenati i problemi, analoghe le contraddizioni e le anomalie. E’ solo questione di proporzioni. La realtà complessiva è l’identità comune dell’intero Mezzogiorno.

Questo libro non va visto in chiave di accorata denuncia, di struggente piagnisteo, per la sventurata città. Esso è un invito alla riflessione, un’esortazione a sollevare la “caduta”: ovviamente nel contesto di un ampio piano territoriale. Scorrendo le pagine ci si impatterà in una realtà locale con tutti i suoi risvolti, i suoi problemi, antichi e attuali. I personaggi, gli avvenimenti, la vita, il modo di essere della comunità – le tradizioni, il retaggio, il folk, le note caratteriali – si snodano e si sostanziano in limpide realtà umane e in sconvolgenti episodi, che hanno fatto storia. Nel bene e nel male. Bertone e Alfani incarnano un credo e un testamento spirituale. Lo scoppio del ’46 un luttuoso evento di allucinazione di smarrimento collettivo. Su questo tracciato si è sviluppato un secolo di storia cittadina. E le due date, 1921 (assassinio di Bertone) e 1946, disastro cittadino, sono punti di riferimento, sprone e incitamento, a ripigliare il cammino interrotto. Con questo spirito iniziai anni addietro la stesura del libro. Nella speranza che il mio tentativo ( il cerino nel buio e la tonaca bianca sulla tetra facciata, come dirò nel riepilogo) venga fatto proprio da chi, con maggiore impegno e autorevolezza – in ciò confortato dalla mobilitazione e dalla partecipazione dei più – si impegni per fa decollare la città, liberandola dalla zavorra che la tiene inchiodata al suolo. E vorrei che si facesse in fretta, anche per consentirmi di stringere idealmente, con effusione e gratitudine, le mani sollevatrici.

Torre Annunziata, giugno 1982.»

Eduardo Ferrone